“I cavalli non conoscono niente, ma riconoscono tutto.”
Così mi parla Ugo Baroi, mani forti e sguardo quieto, mentre camminiamo tra le ombre leggere di un recinto nella Valpolicella. I suoi ospiti non sono cavalli qualunque. Sono animali “difficili”, scartati, segnati da traumi o resi diffidenti da esperienze violente. Cavalli che altrove sarebbero stati dimenticati. Qui, invece, trovano un altro linguaggio. E una possibilità nuova.
La doma, per Ugo, non è dominio. È relazione.
“Attraverso la conoscenza e la fiducia reciproca”, mi dice. Le sue parole sembrano poche, ma bastano a scattare l’intera immagine: niente morsi, niente frustini. Gli spazi sono aperti, ariosi, talmente tanto che le recinzioni sembrano sparire nel paesaggio. Non c'è contenimento forzato, solo invito. E risposta.
Una dozzina di cavalli — per lo più femmine e giovani puledri — si avvicina con la timida fiducia di chi ha scelto di esserci. Ugo non li chiama, non li tocca. Cammina nel tondino, e loro lo seguono. Si ferma, e si fermano. Li guarda, e basta.
È in quello sguardo diretto e silenzioso che succede tutto. Non c’è comando. C’è presenza. È una danza fatta di gesti invisibili, di ascolto, di rispetto reciproco che si rinnova ogni giorno.
Mi colpisce che, per avvicinare un cavallo spaventato, non serva forza, ma coerenza. Che per guadagnarne la fiducia, non basti addestrarlo, ma esserci davvero.
Forse la doma etologica non è altro che questo: uno specchio sottile tra due esseri viventi che imparano a guardarsi senza paura.
Come fotografa, so cosa significa aspettare uno sguardo. So anche che la fiducia non si cattura: si accoglie.
E qui, in mezzo alla terra battuta e al respiro profondo di questi animali liberi, mi pare di vedere qualcosa che va oltre l’equitazione.
È una lezione silenziosa sull’ascolto e sulla libertà che nasce dal rispetto.