Con questo progetto espositivo ho voluto evidenziare la mia convinzione che la fotografia non ha mai un significato univoco.
Ho chiesto allo scrittore Marco Vichi di scegliere alcune immagini tra le mie fotografie realizzate in Bangladesh — senza spiegazioni, senza contesto. E per ognuna gli ho chiesto di scrivere una storia positiva e una negativa.
Una doppia narrazione, costruita solo sul potere evocativo dello sguardo.
In questo gesto, semplice e radicale, stava il cuore della nostra collaborazione: accettare che il significato non appartiene solo a chi scatta, ma si costruisce ogni volta tra l’immagine e chi la guarda.
Nel suo saggio "La camera chiara. Nota sulla fotografia", R. Barthes introduce tre elementi fondamentali nell’analisi della fotografia:
Operator: il fotografo, colui che scatta la fotografia;
Spectrum: il soggetto fotografato, ciò che appare nell’immagine;
Spectator: l’osservatore, colui che guarda la fotografia.
Questa tripartizione evidenzia come la fotografia sia il risultato di un’interazione complessa tra chi crea l’immagine, chi vi è rappresentato e chi la osserva, ognuno portando la propria percezione e interpretazione.
È questa interazione che ho voluto mettere in atto con Marco Vichi: far sì che le mie immagini potessero attivare immaginari differenti, che ciascun osservatore possa leggere secondo la propria esperienza.
Per me, collaborare con Marco è stato un modo per liberare le fotografie dalla rigidità del commento, e lasciarle vivere, ambigue, aperte, mutevoli.
Perché non è la fotografia a dire la verità. Siamo noi, con le nostre storie, a leggerla ogni volta in modo diverso.
👉 Il progetto è anche diventato un libro.
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